L’ASSOCIAZIONE “INSIEME” LANCIA UN MESSAGGIO “L’ABUSO DI ALCOL VA COMBATTUTO”

LUNGO LE SPONDE DEL BASENTO “Il Craving non è un’opinione”

Chiunque abbia un cuore che batte in petto lo sa. Basta uno sguardo della donna che amiamo, un sussurro all’orecchio, una carezza dall’uomo della nostra vita e quel piccolo muscolo scarlatto impazzisce, vomita sangue ed energia attraverso il nostro corpo, spingendoci a fare follie, improvvise o graduali: uno sguardo indiscreto, una sciocca telefonata, una corsa in piena notte. La stanchezza viene bandita dalle nostre vene, abbiamo la sensazione che nulla ci possa fermare, scalfire, toccare mentre divoriamo lo spazio che ci divide da lei o da lui. A volte, quando una storia finisce, a distanza di mesi il profumo dell’amata ci colpisce le narici, e, con il cuore in gola, passiamo diversi minuti a cercarla fra la folla, poi diverse ore a girare in tondo fra i ricordi della nostra storia d’amore, infine diversi giorni a bramare un incontro, uno scambio di parole, anche solo un cenno distratto. È come una pallina su un piano inclinato.
Chi fa uso di Alcool e Sostanze ha un altro cuore, leggermente diverso dal primo. È fatto di vuoto e buio, pulsa per conto proprio, e ad ogni battito pompa morte nei pensieri, nelle emozioni, negli istinti. Accelera per un nonnulla. Per una nota nel sapore di una pietanza, per un odore appena accennato, addirittura per l’espressione di qualcuno che si inietta nelle vene la stessa sostanza.
La maggior parte di noi quando vede la croce verde di una farmacia ci fa caso a mala pena, per una persona dal cuore nero spesso diventa gradualmente l’immagine martellante di una siringa, che si trasforma in una ricerca spasmodica, e questa a sua volta si traduce in una dose. È ciò che chiamiamo “craving”. Una tachicardia di morte che parte da piccoli frammenti di esperienza e paradossalmente sembra placarsi momentaneamente solo con qualcosa di letale. Li martelliamo i nostri ragazzi, mentre cerchiamo di salvargli la vita, su quanto una birra non sia “solo una birra”, di quanto una giocata non sia “solo una volta”, ma un lasciar andare la pallina su quel piano verso l’oscurità. Gli insegniamo che è possibile vivere dentro la città, con i cancelli aperti senza fuggire, mantenendo la pallina salda nel palmo delle mani. Una fiducia in loro e nella città che ri-bilancia l’inclinazione del piano per un po’. È fisica, chimica, psicologia. Scienza. Chiunque abbia un cuore che batte in petto, tuttavia, può comprenderlo anche senza ragionarci troppo.
Il cuore rosso dell’Amore ed il cuore nero della Morte seguono meccanismi identici ma opposti. Il cuore color pece di M., per esempio, non faceva eccezione. Una sensazione, un pensiero fugace, un’idea fuori posto, poi magari un programma. Durante una verifica lo hanno trovato con il collo attaccato al soffitto da una corda.
Una corda. Un sottile e fragile filo ci lega alla vita, ma si può annodare, si può stringere, può soffocare. È un filo che può spezzarsi ad ogni passo nell’enorme distesa di piani inclinati che offre l’esperienza. È su questo unico, sottile cavo che lavoriamo ogni giorno a Potenza #CittàSociale. Combattiamo, spingiamo i ragazzi ad appoggiarsi a noi, ad aggrapparsi al rifugio sicuro della struttura mentre imparano a non scivolare sulla fanghiglia. A volte si cade, non sempre ci si rialza; e si rotola giù, in fondo, verso abissi “troppo gelati per sciogliersi al sole”. Ci lavoriamo, e duramente, affinché un ragazzo possa uscire dai nostri cancelli aperti e possa sperimentarsi su quel territorio di piani obliqui, un po’ come un bimbo che fa circoli di esplorazione sempre più grandi intorno ad una madre attenta. La madre, però, dev’essere una base sicura e l’allontanamento graduale.
Ci salviamo da rapporti dolorosi allontanandoci quel tanto che basta a poter istruire il nostro cuore a non impazzire di fronte all’immensità di quegli occhi, al suono di quella voce, alle note di quel profumo. Lo stesso avviene con le sostanze. I nostri ragazzi, piano piano, si mettono alla prova sempre di più, ma la struttura dev’essere sicura, libera dal flagello ossessivo, dai pericoli, un tempio nel quale ed intorno al quale c’è un Sistema intero capace di mantenere la sacralità della libertà dalle sostanze.
Un chiosco di fronte la comunità, in quel preciso punto, è come rosicchiare il filo su cui ci muoviamo, come invitare il partner nocivo ad essere coinquilino, con la scusa che tanto abita comunque a qualche centinaio di metri di distanza, la stessa che divide Potenza Città Sociale dalla Conad o dallo Spuntino. La differenza è quella che passa fra uno stimolo difficile da affrontare ed un baratro inarrestabile, un pensiero fisso continuamente riproposto dalle musiche, dalle luci, dai richiami multi-sensoriali. Vietare i superalcolici ha la stessa valenza dell’imporre a quel partner di mettersi una giacca, di mettere un po’ meno profumo. Inefficace e poco sensibile. Non portiamo avanti una battaglia moralizzatrice, anche a noi piace bere una birra in compagnia. Vanno bene i chioschi lungo il fiume, purché siano ad una certa distanza da un luogo dove il tintinnio di una bottiglia, l’odore dell’alcool, le risa sguaiate dell’ebbrezza sono una ripida discesa verso il baratro, una reazione chimica che le trasforma in veleno. All’interno della nostra rete i ragazzi passano lungo un processo che li porta ad essere capaci di camminare lungo le sponde del loro fiume scivoloso rimanendo in piedi. Mettere a rischio questo processo significa mettergli sulle spalle un peso troppo grande per loro, significa annodargli una corda intorno al collo ed inclinare il piano sotto di loro. Chiunque abbia un cuore che batte in petto questo potrà capirlo e lottare, sconfortato, insieme a noi.

-Ufficio Stampa Insieme-